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Spazio Labo’ – Centro di fotografia | Strada Maggiore 29 | Bologna
ARCHIVIO MOSTRE: ANNO 2015
a cura di Pier Francesco Frillici
Dal 14 luglio al 25 settembre 2015
Inaugurazione: Martedì 14 luglio ore 18.30
Ingresso Libero
Anche quest’anno il centro di Fotografia Spazio Labo’ espone al pubblico una selezione dei lavori degli studenti del suo Corso Annuale in Fotografia, giunto per l’anno 2014/2015 alla sua Quarta Edizione.
La mostra è stata inaugurata martedì 14 luglio 2015, alle ore 18.30, presso la sede di Spazio Labo’ in via Frassinago 43/2, Bologna e sarà aperta al pubblico con ingresso libero, dal 14 luglio al 25 settembre 2015.
Gli studenti in mostra:
Alessia Andreoli, Belinda Bolgeri, Laura Campana, Jessica D’Angiolella, Melissa Desiderio, Fabrizio Fabbretti, Laura Golfarini, Sara Lorusso, Carole Ursula Marrone, Manuela Mazzocchi, Alice Meggiolaro, Riccardo Sabatini, Giulia Sandri, Renata Ursu, Dario Zanetti.
Commento critico del Curatore:
Estate 2015. Eccoci finalmente arrivati alla mostra di fine corso. Anche quest’anno i temi affrontati dai nostri
studenti sono tra i più vari: memoria, identità, storia, indagini sul territorio, archiviazioni, fiction,viaggio e così via. Personalmente ritengo che sia un buon segnale, perché una scuola ha innanzitutto il compito di fare didattica e di far esercitare i suoi allievi sui grandi temi. Il tempo della ricerca verrà più avanti.
Detto questo passiamo alla rassegna e apriamo con Manuela Mazzocchi. Con Talee, il suo libro-scrigno fotografico, affronta il tema della memoria come mare in piena che porta a riva rottami di un mondo perduto. Anziché abbandonarli, lei preferisce raccoglierli e, con una solerte disciplina sartoriale, ricucirli insieme, noncurante della loro provenienza ma sensibile al loro destino. Da queste schegge d’immagini ricomposte scaturiscono sorprese inaspettate, storie inaudite, simboli indecifrabili spesso in bilico fra l’onirico e l’occulto, così come sembrerebbe suggerirci il monotipo-talismano che l’autrice ha posto sul frontespizio dell’edizione. Se provassimo a sciogliere l’enigma, verrebbe a galla il segreto delle “talee”, i lacerti di piante che, se ben coltivati, tornano magicamente a germogliare, a crescere verso una nuova vita.
Anche per Laura Campana rovistare fra le pieghe del tempo significa rinsaldare i confini sfuggenti della memoria, soprattutto quando si ha a che fare con il mondo degli affetti. Il Posto delle cose è composto da episodi di vita domestica molto comuni, trattati come fotogrammi di un piccolo home-movie. L’autrice però, anzichè riprodurli uno dopo l’altro, ha preferito sovrapporli, incastrarli uno dentro l’altro, dimostrando come, nonostante le diverse occasioni cui appartengono, finiscano per raccontare una sola, piccola, grande storia, dove il tempo muta, ma lo spazio non subisce alterazioni; dove il tempo imprendibile dell’esistenza si salda allo spazio immobile della fotografia.
Interpretando alla lettera il celebre aforisma “mettersi nei panni degli altri”, Sara Lorusso decide di indossare l’abbigliamento della persona a lei più cara. Tuttavia non si tratta di un gioco di maschere e travestimenti. La Lorusso non punta sulla mera imitazione bensì sull’immedesimazione. Perciò incarna i gesti, le posture, le espressioni emotive dell’altra persona, chiedendo poi a quest’ultima di fare altrettanto. Direzione inversa chiarisce, attraverso un ribaltamento speculare dei ruoli, l’esigenza non di guardarsi ma di compenetrarsi, provando sulla propria pelle il mistero dell’altro.
Comprensione e consapevolezza sono forme di reciprocità, derivate da un’esperienza relazionale matura, preceduta però dalla fase dell’auto-svelamento, più introspettiva e privata. Sara Lorusso, nel libro Metto i calzini ed
esco con calma, rivolge lo specchio verso se stessa e la sua quotidianità. Senonchè quell’aria di apparente normalità che si respira dall’esterno concede una felice occasione di distacco, di ripensamento, foriera di scoperte inattese.
Nel libro Io Fabrizio, realizzato da Fabrizio Fabbretti, la perlustrazione auto-riflessiva è invece meno marcata a tutto vantaggio delle molteplici possibilità iconiche del ritratto. L’autore compila con la nettezza del referto giudiziario le prove della sua storia e della sua identità personale. Di certo il proposito, come scrive in esergo, di testimoniare “chi sono e chi vorrei diventare” potrebbe sembrare una piccola ambizione utopica, ma in fondo è proprio questo l’effetto dell’immagine fotografica nella cultura d’oggi: non limitarsi a puntualizzare il nostro trascorso e i suoi feticci rituali, ma lasciarci
un’eredità “genetica”,un imprinting che segnerà i nostri comportamenti.
Chi siamo e chi vorremmo essere sembra un interrogativo fra i più urgenti. Melissa Desiderio, ad esempio, pensa che il “volto del tempo”, prodotto dai codici sociali cui soggiace la maggioranza, non può imporre alcuna supremazia e quindi, anzichè restare prigioniera dei riti “autocelebrativi” più alla moda, nega l’autorità del presente, e va a rifugiarsi in uno splendido sogno anacronistico. Prossima Fermata la proietta in un viaggio in cui il treno dell’attualità non fa tappa, si possono incontrare tanti viaggiatori illustri, veri idoli del loro tempo, epoca non remota ma di certo ignota alla giovane Desiderio. Del resto il bello di queste fantasmagorie virtuali consiste proprio nel regalarci la possibilità di evadere dentro a un’illusione, di re-incarnarci in una novella Tracy Spencer o in una sempre verde Rita Pavone. Attenzione però, non sono tentativi di clonazione, bensì autentiche ibridazioni in cui il mito del passato presta la faccia, ma spetta poi al corpo presente dell’autore sostenerla. In un continuo, ostinato bisogno di trasportare il desiderio nella realtà vivente.
La trasparenza e il potere certificante dell’immagine hanno a lungo tratteggiato il ritratto fisiologico dell’io e uno dei metodi più diffusi ed efficaci è stata la fototessera: inquadrature frontali, inespressive: l’essere uguale all’apparire. Paradossalmente questa modalità standardizzata è stata la più capace di indicare le differenze: siamo tutti resi eguali, pur restando evidentemente diversi. Al contrario, il ritratto “mediologico”, che spopola sui social network dove dovrebbe sfogarsi la creatività senza regole nè freni, è divenuto omologante e ripetitivo, contravvenendo alla sua promessa di libertà. Alice Meggiolaro e Belinda Bolgeri aprono il conflitto fra due volti-maschera, schierati su di un unico campo. L’esito è ambiguo,A-Social, come recita il titolo delle fotografie: l’“ego” si fa solo dividere dai suoi “alter”, mai abbattere. Nella società odierna della comunicazione come spettacolo e mercato, ogni rappresentazione ha un suo pubblico acquirente. Vedere equivale a vendere, tanto più quando la merce in ballo è il corpo della donna. Naturalmente la tecnica di seduzione/persuasione più inflazionata punta sull’erotismo dell’immagine. Renata Ursu con Natural Skin tenta di ribaltare questo assunto consumistico realizzando una rappresentazione in controtendenza, in cui il nudo viene ripulito dai clichè per manifestarsi infine in una purezza quasi infantile o edenica dentro a uno scenario boschivo intatto e primigenio che gli dà riparo come una stanza dove prendersi cura di sè e ricongiungersi alle origini della vita.
L’interesse critico per la questione femminile è molto acceso in Bla bla sul Bel Paese, “bellissima” rivista tematica confezionata da Carole Ursula Marrone. Uso tale aggettivo a proposito, perchè parlare di bellezza, quando al centro c’è la donna, è un canone consolidato sopratutto in un certo immaginario-souvenir da gita turistica. La Marrone ne fa incetta, collezionando per via fotografica, decine di reperti del folklore italico da cui traspaiono qualità femminili assai stereotipate: l’avvenenza, la dolcezza melliflua, la frivolezza, condite in una salsa elegiaca e oleografica. A fronte di questa narrazione kitsch, l’autrice ne pone un’altra in aperto dissidio: un “contro-Paese delle Meraviglie” dove brani tratti dalle cronache giornalistiche degli anni settanta mostrano un’immagine della donna anti-canonica, in procinto di lottare per l’emancipazione sociale e per i diritti civili.
Ci si può ricongiungere a qualcuno attraverso le sue immagini? La fotografia a dir il vero ci mette sempre alla ricerca di una meta e il fotografo, come un segugio ben addestrato, sa trasformare gli indizi in piste da scovare, i sintomi in predizioni.Laura Golfarini ha scoperto che le persone care spesso cambiano, e a volte scompaiono, ma i segni del loro passaggio restano inscritti nei luoghi della loro vita. Così, per realizzare Tracce: indagine fra passato e presente, si è incamminata lungo i sentieri dell’appennino tosco-emiliano dove la nonna era stata fotografata da ragazza, li ha rin- “tracciati” con precisione, passione e intensità e, come accade con i diari di viaggio, ce li ha consegnati a futura memoria.
Una seconda indagine, condotta con un analogo sguardo scrutatore, la svolge Riccardo Sabatini, il quale trascina l’attenzione dello spettatore in ambienti anonimi, comuni, frequentati da tutti, ma spogliati dall’ingombro degli abitanti.
L’occhio freddo, crudo, implacabile del detective hard-boiled, come si evince dal titolo del progetto, cerca di conficcarsi fin negli angoli più improbabili di queste location, ma non ci riesce mai del tutto. Un muro di gomma impenetrabile, respingente, allunga le distanze. Tutto appare familiare, ordinario e al tempo stesso misterioso, estraneo, quasi sinistro. Una sensazione di normalità “perturbante” avvolge la scena. Visitare questi luoghi non è proprio come passeggiare in una tranquilla cittadina di Abitata attesa di Jessica D’Angiolella è in fondo un modo per ripensare l’idea di viaggio. Parla di attese, partenze, ritorni. L’avvento di un figlio, evento biologico originario per la specie umana, testimoniato da una banale ecografia, prelude non solo, per ontogenesi, alla sua crescita come singolo uomo, ma anche, per filogenesi, alla sua evoluzione come rappresentante dell’intera società umana durante il processo storico-tecnologico. “La gravidanza – scrive l’autrice – insegna un segreto essenziale: il ruolo centrale dell’attesa, abitata dalla riflessione, dalla meditazione sulla preziosità irripetibile dell’individuo, di come esso genererà una preziosità irripetibile di cultura, perché l’uomo è una creatura complessa che tende naturalmente a formare e a creare sistemi complessi.”
Guardare ergo capire. Logico no? Sappiamo dalle neuro-scienze che non c’è visione senza un briciolo di pensiero su cosa aspettarsi: siamo sempre noi a decidere. Però possiamo farlo in due modi distinti: o ci soffermiamo
sulla superficie delle cose, oppure adottiamo uno sguardo più profondo, radiografico, che al di là del termine ha ben poco di scientifico, piuttosto attiene al campo dell’immaginifico.
Proietta cioè la visione altrove, oltre le abitudini, trasformandola in uno specchio evocativo, cosÏ come accade con l’opera d’arte, quando la verosimiglianza si fa paradossale e le certezze reali cedono il posto alle possibilità irreali. In bilico fra verità e finzione, sogno e ragione, si collocano gli oggetti sospesi di Alessia Andreoli. Si tratta di Muta-menti, presenze cioè ambivalenti, meticce, meravigliose che possono essere trovate, in quegli spazi in cui il contingente si neutralizza, solo da chi trova il coraggio di mutare ogni punto di vista.
La presenza affabulatoria degli oggetti torna a farsi sentire nel libro Barberia. Pur volendo narrare la storia lavorativa del nonno, barbiere dei bei tempi che furono, l’autrice dà la parola ai ferri del mestiere: il pennello, il rasoio, la spazzola, la coramella e l’indimenticabile poltrona su cui si sono consumati i riti della rasatura e dell’acconciatura. Questi arnesi sopravvivono oltre l’uomo come reperti, ma non alla stregua di vecchie rovine abbandonate, al contrario come splendidi monumenti restaurati, fieri della loro silenziosa eloquenza.
Pier Francesco Frillici
Per vedere tutti i lavori degli studenti della Quarta edizione del Corso Annuale in Fotografia e delle edizioni passate vai alla PAGINA STUDENTI.
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