Stonewall: The Temple | Intervista a Vito Fusco
Partiamo dall’inizio. Il progetto Stonewall: The Temple di Vito Fusco è nato nel giugno 2016, durante il workshop con Davide Monteleone organizzato all’interno di Photo Workshop New York, il side-project di Spazio Labo’ che da otto anni offre a fotografi di tutto il mondo la possibilità di seguire workshop intensivi a New York con alcuni dei fotografi più importanti e influenti del panorama internazionale.
Oggi, questo stesso progetto è stato selezionato da Orvieto Fotografia 2017 e sarà in mostra dal 10 al 28 marzo all’interno di questa prestigiosa manifestazione. Quale occasione migliore per esplorare la genesi di Stonewall: The Temple e conoscerne gli sviluppi futuri? Tutto questo (e anche di più, come sempre quando un progetto ci appassiona) nell’intervista che segue.
Prima di tutto, l’idea. Eri già partito alla volta di NY con in mente l’idea di sviluppare un progetto sullo Stonewall Inn?
A dire il vero no! La mia idea iniziale era quella di realizzare un progetto sugli incroci, un reportage che mostrasse gli incroci newyorchesi come metafora degli incroci che la vita offre. Mi ero innamorato di questa possibilità ed ero ben deciso a portarla avanti. Così, il primo giorno di workshop mi sono piazzato in un crossroad e sono rimasto lì fino a sera. Il giorno successivo ho portato le foto a Davide Monteleone e lui mi ha “distrutto”, mi ha fatto capire che non avevo interiorizzato il progetto, che era troppo didascalico e mancava di prospettiva. Ero molto turbato, non lo nascondo, ma deciso a superare questa crisi.
Come sei giunto a Stonewall?
Ovviamente, una serie di coincidenze. A New York alloggiavo tramite Airbnb in un appartamento il cui proprietario fa parte della comunità omosessuale della metropoli. Così ho chiesto a lui quale fosse, a suo dire, un importante incrocio newyorchese e lui mi ha subito indicato lo Stonewall Inn. Ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che da Stonewall ebbero inizio le rivolte del 1969, l’inizio simbolico del movimento LGBTQ militante. A quel punto mi sono detto che era quello il luogo che stavo veramente cercando. Il secondo giorno di workshop, determinato a uscire dall’impasse in cui mi trovavo, dopo lezione mi sono recato al numero 53 di Christopher Street. Il posto non è grande come quello che ha dato il via alla “Rivoluzione Gay”, ma ne conserva lo spirito. Da lì è iniziato tutto.
Com’è stato il primo impatto?
Ero sconvolto. Fuori c’erano innumerevoli mazzi di fiori e biglietti che commemoravano le vittime della strage di Orlando (la sparatoria di massa che nella notte tra l’11 e 12 giugno 2016 ha coinvolto più di cento persone riunite nel night club Pulse di Orlando, Florida. NdA). C’erano anche numerose macchine della polizia e si respirava una certa aria di tensione, era infatti la settimana del Gay Pride. All’interno, l’atmosfera cambiava radicalmente, ho subito avuto l’impressione di essere in un tempio. Sui muri, tantissime foto che documentavano le lotte per i diritti degli omosessuali; la luce era molto bassa, rossa, e campeggiavano scritte come “This toilet is for all genders”. Ho iniziato a parlare con un signore al bancone, che all’inizio soprattutto era visibilmente infastidito, ma che mi ha raccontato l’origine di Stonewall.
Ho scoperto infatti che ancora negli anni ‘60 in America era vietato servire alcolici agli omosessuali; locali come lo Stonewall Inn erano quindi in mano alla mafia, un fenomeno molto simile a ciò che accadeva negli anni ‘30 con i blind tiger bar o gli speakeasy. Ho capito che la storia del locale era una storia di divieti e di reazioni a essi, per questo nelle mie foto le persone fanno quello che vogliono, anche cose che in alcuni luoghi sono vietate. Ho poi parlato a lungo con Tree Sequoia, un pezzo di storia di Stonewall, era presente durante le proteste del 1969 e da 47 anni è il barista di questo luogo; mi ha raccontato come è iniziato tutto, come bastò una sola scintilla per far scoppiare la rivolta.
Come hai portato avanti il lavoro?
Ogni giorno dopo lezione arrivavo all’orario di apertura, le 14, e restavo lì fino a notte fonda, nell’angolo in fondo al locale. Parlavo, scattavo ritratti e comprendevo pian piano cosa quel bar rappresentasse: gli avventori sono indistintamente gay, etero, trans, non si percepiscono distinzioni. Ho voluto realizzare uno spaccato in grado di parlare delle persone, e non del loro genere. Io sono eterosessuale, e credo che questa mia “prospettiva” sia una parte importante del progetto. Quando ho iniziato a portare le prime foto a Davide Monteleone lui ha subito detto: perfetto, ora hai trovato una strada.
Hai incontrato qualche difficoltà nel realizzare il progetto?
C’è stata un po’ di tensione durante il Gay Pride. Il giorno prima la manager, Peggie, mi aveva espressamente chiesto di non presentarmi durante la manifestazione. Ci sarebbe stata molta confusione e io, in effetti, avrei intralciato un po’ con il mio cavalletto e tutto. Ma anche in questo caso mi è venuto in aiuto Davide! Mi ha detto: tu ci devi andare! È un’occasione troppo importante, saranno loro al massimo a mandarti via. Ho avuto fortuna, ho fatto foto senza problemi fino a sera, immerso in un’atmosfera incredibile.
A proposito di Davide Monteleone, com’è stato seguire il workshop con lui?
Fondamentale. Non ho appreso solo suggerimenti tecnici, ho avuto modo di comprendere il suo punto di vista, il suo metodo e il fatto che lui stesso guardasse sempre con occhio critico il suo operato. Ero come un treno che ogni tanto rischiava di deragliare, e lui mi rimetteva sul binario; una influenza quasi “paterna”. Mi ha dato un punto di partenza, mi ha fatto riflettere; uno dei problemi più grandi che ci si trova ad affrontare in un progetto così è la necessità di trovare un modo che possa esprimere la realtà che vuoi rappresentare. Prima di questo corso non avevo un vero metodo, ora lo sto sviluppando; sono tornato a casa con un concetto, un’idea, non mi aspettavo che questa esperienza sarebbe stata così importante per me, devo ringraziare il mio amico Niccolò Cozzi che all’epoca mi spinse a partecipare. Il valore didattico del corso è altissimo, e l’organizzazione era impeccabile, non una virgola fuori posto.
E dopo il workshop, cosa è successo? Come sei giunto alla realizzazione di Stonewall: The Temple?
Prima di tutto, forte di quella settimana intensiva e del metodo di lavoro che avevo imparato, sono tornato in un crossroad e con Niccolò Cozzi ho realizzato un piccolo progetto unendo foto a video realizzati in time-lapse. Ho capito che il contesto e l’ambiente sono fondamentali per un progetto così; e grazie a questo sono tornato da NY con ben due progetti in tasca. Poi devo ammettere che ci sono voluti mesi per metabolizzare ciò che Monteleone mi aveva detto, e ciò che avevo visto. Ho letto molto, mi sono documentato, ho scoperto cose che mi hanno inorridito, come il fatto che solo nel 1990 (per l’esattezza, il 17 maggio) l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha tolto l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. Poi ho riflettuto sulle persone che avevo incontrato, come un ragazzo a cui ho scattato un ritratto che però mi detto di potermi dare solo il suo nome di ragazza, perché non aveva ancora effettuato l’operazione. Io, eterosessuale, non ho mai avuto nessun problema ad autodeterminarmi, e mi sembra assurdo che la sessualità di una persona possa essere dettata da un documento. Il processo di editing è stato lungo e impegnativo, ma sono soddisfatto del risultato! In più, il fatto che questo progetto sarà in mostra a Orvieto per la convention annuale del FIOF è decisamente un traguardo che mi rende felicissimo.
Stonewall: The Temple sarà in mostra a Orvieto dal 10 al 28 marzo all’interno della convention del Fondo Internazionale per la Fotografia. Da segnare tra gli appuntamenti anche la presentazione pubblica del progetto, prevista per sabato 4 marzo alle 17.30 nella Sala dei Quattrocento, presso il Palazzo del Popolo di Orvieto.
Qui tutte le info sul programma.
Qui il sito di Vito, con le foto del progetto e un bel testo introduttivo.
Photo Workshop New York torna anche quest’anno con tre workshop d’eccezione:
◆ RICHARD RENALDI | 10-16 luglio | New York City: a sense of place | Focus on: ritratto, relazione soggetto/ambiente, rapporto con i soggetti.
◆ PHILLIP TOLEDANO | 17-23 luglio | Being personal | Focus on: narrativa personale e intimate photography.
◆ ANASTASIA TAYLOR-LIND | 24-30 luglio | Creating Intimate Long-Form narratives | Focus on: progetti a lungo termine, fotografia documentaria e pratiche professionali.
Inoltre, PWNY offre 3 borse di studio (una totale e due parziali) per partecipare ai workshop in programma. L’opportunità è riservata a fotografi under 26 senza limiti di genere o nazionalità.
La scadenza per presentare domanda è fissata per il 31 marzo 2017. Informazioni e application form qui.
- Posted by Laura De Marco
- On 1 Marzo 2017
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